Le chiedo di raccontare come meglio crede la sua storia, la storia di una persona che a un certo momento della sua vita ha deciso di fare una scelta importante, ricca di valenze. Può raccontarmi tutto quello che desidera, come meglio crede, e nel modo che più le va.

Si tratta di un argomento abbastanza ampio e complesso, quindi tento di semplificare per non passare delle ore a raccontare di tutto.

Premetto solo una cosa: non mi sento assolutamente di aver fatto niente di straordinario, così fuori da ogni logica. Probabilmente sono io che sbaglio a leggerla in questa maniera, però, davvero, sono proprio certo che fin da subito non ho mai pensato di aver fatto niente di così eccezionale, ma semplicemente di aver fatto una cosa che in quel momento, in quella situazione e in quel dato contesto, mi sembrava la cosa più naturale e più logica.

Non arrivo a raccontare tutta la mia vita in questo momento. Parto, in questa narrazione, da un episodio specifico: dal fatto di essermi innamorato di una persona, di aver condiviso delle cose con questa persona; una persona che, a un certo punto della sua vita, ha incontrato delle difficoltà sanitarie, andate via via peggiorando. Abbiamo condiviso anche questo percorso di inizio e di difficoltà. Quando si è presentata la prospettiva di dover passare da farmaci e terapie più o meno invasive alla vera e propria dialisi, questo stesso passaggio ha chiaramente comportato anche dei cambiamenti importanti nella vita di relazione, di coppia.

Oltre alle macchinette che potevano pulire il sangue, oltre al dover andare in ospedale a fare analisi, dialisi e controanalisi, si è cominciato a prospettare l’ipotesi di un trapianto. Ne abbiamo parlato anche chiaramente in primo luogo con il medico che in quel momento stava seguendo E., il Dottor Berto. Questo primo incontro avvenne a Cossato, dove la dialisi si faceva in uno studio che non era un vero studio, ma una sorta di sgabuzzino.

Credo che con il dottor Berto si sia stabilito un rapporto che va al di là di quello professionale. Mi ricordo che spesso E. si lamentava che durante le visite che facevamo insieme, il Dottor Berto e io ci trovavamo a parlare di motociclette, piuttosto che di politica, di viaggi e di altre cose, mentre l’aspetto sanitario passava un attimo in secondo piano. Mai trascurato, ovvio. Il momento diventava però anche un modo per condividere delle cose diverse: la medicina serve per curare le persone, non solo i sintomi o le malattie, per come la vedo io. Il nostro era un approccio tutto sommato molto positivo: lo dico adesso, lo pensavo allora e spero di continuare a pensarlo. Spero di trovare sempre medici che diano importanza anche a questi aspetti di relazione.

Per cui, ripeto: anche per questo a me sembra che il nostro sia stato un percorso molto naturale, senza grandi decisioni, senza grandi patemi. I patemi forse ci sono stati più nei confronti dell’ambito familiare avevamo allora intorno: da un lato, come credo abbia già raccontato E., lei si stava vivendo la separazione dall’ex marito e, quindi, anche la sua famiglia stava passando un periodo di difficoltà. Di conseguenza, anche la scelta della donazione non è stata, all’inizio, vissuta come così spontanea, naturale o positiva, insomma.

Dopo di che è chiaro che la situazione si è tranquillamente evoluta in maniera positiva dopo il trapianto, dopo le varie cose, dopo la nostra convivenza e tutto quello che ne è venuto.

Da parte mia, rispetto alla mia famiglia di origine, io ho due figlie di 35 anni. In quel momento però avevano tra i 15 e i 20 anni, o giù di lì. Uno degli scrupoli che ci siamo fatti, confrontandomi in particolare con loro due, consisteva in un ragionamento del tipo: «Ma se un giorno fossero loro ad avere bisogno di qualcosa, di un rene o di un qualche supporto, questa scelta potrebbe in qualche maniera andare un po’ a danneggiare loro, le mie figlie». In questo senso e da questo punto di vista, qualche dubbio mi è venuto,

Sono state proprio loro, però, e in maniera molto tranquilla e molto serena a spingermi a continuare sulla strada della donazione. Da allora, al di là di tutte le varie vicissitudini di esami, gli innumerevoli viaggi a Novara, gli incontri psicologici o con il magistrato per l’autorizzazione, i vari esami che andavano fatti… Da allora credo che sia stata una strada abbastanza rapida e in discesa. Soprattutto dopo che E. era stata pre-allertata da Parma, alla fine della primavera, mi sembra, poiché poteva esserci questa possibilità di un trapianto. Un trapianto che poi non si è realizzato e lei è andata “nel pallone”: sia perché avevamo probabilmente già iniziato delle cose, sia perché forse non era preparata. Anche questo, probabilmente, ha “aiutato” a rendere un po’ più rapida tutta la fase preparatoria, i controlli.

È andato tutto bene.

Una delle cose che vengono prospettate nel momento in cui ci si incontra con gli psicologici è l’avere poi la capacità di affrontare anche un possibile fallimento. Perché, chiaramente, un trapianto può non funzionare, può non andare a buon fine. Al di là dei casi tragici, un espianto può avere dei problemi, per cui il “sacrificio” che uno ha fatto non realizza poi lo scopo per cui si era intrapreso il viaggio. L’aiuto psicologico è dunque stato, secondo me, il supporto migliore.

I primi tempi dopo il trapianto non sono stati per E. facilissimi: si tratta di un periodo che ricorda in maniera abbastanza nebulosa, ma per me si è trattato di un periodo abbastanza breve, dal momento che dopo l’espianto sono stato ricoverato qualche giorno a Novara e tenuto in convalescenza.

Per lei… il rene non è partito subito. Ha avuto bisogno di una serie di interventi ulteriori, è stata riaperta proprio per controllare che tutto fosse a posto e la sua degenza lì è stata di una quarantina di giorni: un periodo decisamente più lungo rispetto ad alcune persone che vedevo arrivare in terapia intensiva a Novara, fare il trapianto e tornare a casa dopo una settimana. All’epoca prendevamo in giro E. dicendo che anche su questo lei era una specie di diesel: impiegava molto tempo a carburare, ma che, proprio come i diesel, avrebbe poi fatto ancora tantissimi chilometri.

Voglio aprire una parentesi. Tutto questo, questa avventura, aiuta sicuramente a creare un legame più forte tra le persone, al di là di quello che può essere quello fisico. È proprio una sorta di legame creato dal condividere tutto un percorso di crescita, di sofferenza, ma poi anche di gioia e di partecipazione a quelli che sono i risultati positivi.

Quello che ho fatto… ho sempre cerato di dire a E., anche se credo che sia difficile poi prenderla in questa maniera, che quello che ho fatto l’ho fatto spontaneamente, lo volevo fare. Non doveva sentirsi assolutamente in colpa o in debito nei miei confronti: credo che, purtroppo, uno dei meccanismi che si possono instaurare in questo tipo di relazione è che la persona che riceve un “regalo” di questo tipo si senta poi chiaramente molto legata alla persona che le ha fatto quello stesso regalo. Su questo non ci posso fare niente, non posso impedire a lei di sentirsi così, però credo di aver sempre provato, per iscritto oltre che tramite le parole, a mettere in chiaro questa cosa: se uno fa un regalo fa un regalo, non si aspetta qualcosa in cambio. Questo, secondo me, è importante soprattutto dal punto di vista psicologico nei confronti della persona che riceve. Si tratta di una considerazione che secondo me davvero deve essere ribadita, altrimenti si crea un legame di dipendenza che non è sano in un rapporto.

Un’altra parentesi che voglio aprire: se la mia vita è cambiata rispetto a questa esperienza. È sicuramente cambiata rispetto al rapporto con E., come dicevo un attimo fa, perché ha consolidato tutta una serie di dimensioni. Per tutto quello che riguarda il resto della mia vita, anche dal punto di vista sanitario, ero abbastanza malmesso prima e continuo a esserlo oggi, quindi la cosa non è cambiata un granché.

Sinceramente, se non fosse per il fatto che ogni tanto mi viene ricordato o per incontri o per altre cose, che sto vivendo con un rene solo io assolutamente me ne sono completamente dimenticato.

Quando decidemmo di fare questa cosa, io lavoro in un ente pubblico, un comune. Quando il sindaco di allora aveva saputo della mia volontà di donare (avevo dovuto prendere permessi per i vari esami), mi aveva raccontato di sua sorella: molti anni prima, quando aveva 25/30 anni ed era rimasta incinta, facendo degli esami aveva scoperto che era nata con un rene solo. Aveva vissuto 30 anni con un rene solo senza mai aver avuto nessun tipo di problema, senza neanche saperlo.

Anche questa storia aveva rappresentato, diciamo, un ulteriore stimolo e aiuto per farmi dire «con un rene si vive in maniera assolutamente tranquilla». Poi è chiaro che ci sono delle controindicazioni; è inutile che ci prendiamo in giro. Però con un rene solo si può vivere in maniera assolutamente normale e tranquilla, senza nessun tipo di problema.

Va bene è già stato un bel racconto, poi se le viene in mente altro e vuole intervenire faccia pure. Adesso che mi viene in mente, siete voi che siete stati il primo trapianto da vivente fatto a Novara, quindi rispetto a questo come l’avete vissuta? C’era una sorta di preoccupazione legata al fatto che era la prima volta? Oppure siete stati seguiti molto bene come forse avevate già detto.

Sì. Parlo per quanto riguarda come l’ho vissuta io, ma anche per come l’ho vista concretamente. Credo che, proprio per il fatto stesso che fossimo i primi e che Novara dovesse in qualche maniera creare le basi per poterne fare tanti altri, era stato creato su di noi un protocollo operativo che era quanto più minuzioso e preciso possibile: dal come si faceva la doccia a come eseguire la depilazione la sera prima. Questo è uno degli episodi che mi ricordo maggiormente: il lavaggio con questa crema asettica che aveva una puzza terribile. Credo l’abbia fatto anche E.: siamo stati operati di sabato mattina e ricoverati di venerdì, al mattino, poiché E. doveva fare dialisi. C’erano poi tutta una serie di altre cose, come l’ultimo mio esame del sangue, una cena leggera alla sera, chiaramente… o forse addirittura il digiuno, adesso non ricordo. Mi ricordo che c’era questa doccia da fare con un sapone antisettico, di colore marrone scuro, che lasciava una puzza incredibile addosso. Poi mi hanno dovuto fare la depilazione per entrare in sala operatoria. Ricordo che questo odore persistente di uova marce mi è rimasto addosso per alcuni giorni, o forse era una sensazione mia. In ogni caso, davvero: credo ci fosse tutta una serie di protocolli molto rigidi e tutta una serie di controlli, che non dico che ora non vengano più fatti. Ma è un po’ come la prima volta che uno prende la patente e guida una macchina: fa tutta una serie di attenzioni che poi diventano automatiche – non è che poi non faccia più attenzione, ma quelle stesse cose le fa con una “superficialità” maggiore, proprio perché ormai ha acquisito la capacità di andare, di guidare, di schiacciare l’acceleratore, la frizione eccetera). Anche in questo caso credo che fosse un po’ così: credo che tutta una serie di controlli prima dell’intervento, il sostegno psicologico anche, le visite, le due camere comunicanti con il telefono (i primi due giorni non ci potevamo alzare e quindi nemmeno potevamo parlarci, vederci)… Credo che questa serie di accortezze siano state usate in maniera particolare. La scrupolosità messa in atto per tutta quella parte che adesso non sto a raccontare, quella degli esami: credo davvero che essere i primi sia stato un “vantaggio”. Un vantaggio che ci ha dato modo di essere seguiti in maniera ancora più scrupolosa di quanto non si faccia già normalmente. Naturalmente credo anche che tutta la procedura venga messa in atto sempre in questa maniera qua.

Dal canto mio, pur essendo i primi a subire un trapianto da vivente a Novara, non ho avuto paura che il personale fosse “inesperto” o che non sapesse cosa fare. Di trapianti ne hanno sempre fatti. La novità era che non era mai ancora stato fatto direttamente un espianto, lì a Novara: credo che l’equipe sia stata preparata adeguatamente, in sostanza.

Bene, è importante. Invece il fatto delle stanze comunicanti. Mi scusi: non ho capito. Dopo l’operazione vi hanno permesso di comunicare con un telefono?

Dunque, non credo che ora sia più così. Fortunatamente non sono più andato in terapia intensiva a Novara. All’epoca, quella post trapianto era un salone grande, centrale, con (mi sembra) quattro camerette in cui venivano messi gli ospiti. In genere erano quelli trapiantati, due a destra e due a sinistra; nel nostro caso le due stanzette avevano praticamente il bagno in comune e una porta divisoria che le metteva in comunicazione. In tutte queste stanze c’era comunque un telefono che serviva per comunicare all’esterno. Nel nostro caso, la porta comunicante era stata lasciata aperta, in modo che riuscissimo a vederci. Inoltre, ci avevano messo in comunicazione attraverso questo telefono interno: la sera del sabato, quando siamo stati operati, per un attimo almeno sono riuscito a sentire la sua voce. Successivamente all’intervento, poi, E. è rimasta un po’ più “in coma” per alcuni giorni, ma almeno siamo riusciti, fin da subito e attraverso il telefono interno, a dirci “ciao”.

Beh è una cosa bella comunque, sono piccole accortezze che però hanno un significato. Invece se posso chiedere, come si ricorda il momento dell’operazione? E. mi aveva raccontato di lei nel lettino, con la cuffietta…se ha qualche ricordo in particolare, qualche emozione, come si è sentito?

Io ricordo che la notte mi avevano attaccato le flebo per… idratare (ecco, non mi veniva il termine) – per idratare il rene che sarebbe poi stato espiantato. Ricordo questa levataccia al mattino, di aver salutato E. in maniera abbastanza tranquilla; a parte che ero un po’ rintronato probabilmente per la prima dose di anestesia. Quello che ricordo è che la sala operatoria è mantenuta a una temperatura abbastanza bassa per proteggere, credo, i vari organi vitali; per cui mi avevano coperto, come credo si faccia normalmente, con una coperta che si chiama Orsetto. C’era l’infermiera che mi prendeva in giro e diceva «Si tenga comodo sotto la coperta, con questo orsetto che la scalda». Questa cosa me la ricordo. Mi ricordo di quando mi hanno portato con questa coperta riscaldata, orsetto appunto, e poi mi ricordo solo del corridoio al ritorno, quando era già stato operato. Non avevo assolutamente idea di quanto tempo fosse passato, ma il rivedere i visi delle mie figlie, il fratello di E., la sua mamma, tutti lì che aspettavano. Io poi probabilmente sono tornato in camera molto prima di E. Mi sono fatto un’altra parte di dormita con l’anestesia, questo sì. Però il corridoio con le facce che mi guardano dall’alto me lo ricordo.

Penso sia molto bello anche quello che ha detto prima delle sue figlie, nel senso che credo sia un aspetto importante il fatto che lei si sia posto il dubbio del “Se poi dovesse capitare qualcosa a loro?”, almeno è una cosa su cui non avevo mai pensato però da donatore penso che sia un aspetto importante e ricevere l’approvazione della famiglia penso sia altrettanto importante. Pensa che sarebbe stato diverso se le sue figlie in particolare si fossero comportate in un altro modo?

Credo che i figli siano un po’ fatti della pasta con cui li cresciamo, con cui diamo loro tutta una serie di esempi. Per cui non mi aspettavo, lo dico molto sinceramente, una risposta diversa da parte delle mie figlie: la loro risposta è stata il frutto di tutta una serie di percorsi che avevamo condiviso insieme. Anche la storia con E., per quanto travagliata: io arrivavo da una separazione, anche se non ero mai stato sposato, ed E. stava vivendo la stessa situazione. Le mie figlie conoscevano anche questo pezzo di percorso della mia vita, sapevano che E. aveva questo tipo di problemi e non è stata una sorpresa assoluta da parte loro il fatto che io mi fossi proposto come donatore. È chiaro che, in astratto, se ci fosse stata una reazione avversa da parte loro… Non dico che non avrei fatto questa cosa, ma sicuramente sarebbe stata vissuta in maniera molto meno tranquilla e serena, questo è evidente. Però adesso ripeto, faccio il presuntuoso: non mi aspettavo nulla di diverso proprio perché credo che le mie figlie fossero davvero delle persone con una sensibilità e un’intelligenza tale per cui erano in grado di cogliere e di capire fino in fondo di cosa si stava parlando.

E questo è molto bello. Prima ha accennato a tutto il percorso delle valutazioni cliniche, come ha affrontato tutte queste fasi, queste numerosi visite, questa attesa ecco è stata vissuta comunque bene, è stato seguito dai medici, o ci sono stati momenti di difficoltà/ripensamento?

Ma no momenti di ripensamento no, come le dicevo credo che il fatto che Enrica fosse stata chiamata da Parma abbia portato ad una accelerazione. Adesso la scansione temporale precisa non me la ricordo più, sono passati 17 anni, però mi ricordo che avevamo cominciato questo percorso a gennaio/febbraio e, per i primi mesi, al di là di un paio di incontri, un po’ di chiacchierate e forse un esame del sangue, di cose vere per poter procedere in questo senso si era fatto abbastanza poco o comunque era stato fatto abbastanza lentamente.

Dopo poco comunque l’iter ha subito un’accelerazione e quindi tutto sommato è stato un percorso, come dicevo all’inizio, un po’ più in discesa.

Io non ho mai avuto ripensamenti, anzi, avevo sempre più voglia di poter procedere perché la situazione di Enrica stava lentamente peggiorando, aveva cominciato a fare la dialisi peritoneale, che era la meno invasiva. La faceva a casa di notte, collegata ad una macchinetta. Sicuramente fare la dialisi così era meno pesante rispetto ad andare tre volte alla settimana in ospedale. Ad un certo punto, però, questo tipo di dialisi non è stata più possibile farla per una serie di infezioni ed altre cose, per cui ha dovuto iniziare a fare la l’emodialisi.

Praticamente il macchinario dell’emodialisi ti toglie il sangue, lo ripulisce e lo rimette in circolo. È sicuramente molto più pesante da reggere anche come fatica fisica, però proprio per via di questo suo peggioramento il percorso di avvicinamento alla donazione si è accelerato. Non è stata saltata nessuna tappa, però tutti gli esami sono stai molto più consequenziali. Anche l’emodialisi è stata fatta senza fare la fistola nel braccio, come si fa normalmente, proprio perché prospettavano già il trapianto.

Adesso apro una parentesi: tutto quello che sto raccontando fa riferimento al 2003, ma negli anni successivi ci sono state persone che hanno potuto fare un trapianto da vivente senza dover passare dalla dialisi, mentre prima si pensava che fosse uno step necessario per poter entrare in lista di attesa e fare un trapianto. I medici mi hanno addirittura detto che se una persona malata di nefrite riesce ad evitare la dialisi ha maggiori probabilità che il trapianto vada a buon fine e che il rene funzioni bene, perché non ha deteriorato una serie di altri organi interni.

Comunque, dicevo, non c’è stato alcun un ripensamento da parte mia o un’eccessiva attesa, proprio perché appunto dopo l’episodio di Parma ci era stata data una data più o meno precisa, anche se nel caso l’ultimo esame avesse dato esito negativo avremmo dovuto rimandare, quindi sapevamo grosso modo quale erano le date e le tempistiche che ci aspettava.

Questo ci ha anche permesso di programmare un paio di giorni di vacanza prima dell’intervento, in modo da poter stare sereni qualche giorno prima di andare in ospedale.

Collegandoci a questo, una delle ultime domande, com’è cambiata la vostra quotidianità da prima del trapianto, mentre Enrica faceva il periodo di dialisi anche, a dopo il trapianto, dopo che si è ripresa ovviamente?

Sicuramente la cosa è stata molto positiva da tanti punti di vista.

Come dicevo prima, a parte a dialisi in ospedale che è abbastanza destabilizzante dal punto di vista della fatica, anche quella peritoneale non era così semplice, perché tutte le sere prima di andare a dormire, invece di prendere il libro sul comodino, doveva accendere la macchinetta e collegarci i tubi che le uscivano dalla pancia, senza contare che magari durante la notte suonavano degli allarmi.

Per cui direi che dopo il trapianto anche solo la facilità dei rapporti interpersonali è migliorata.

Poi c’era tutto un entusiasmo, anche perché abbiamo cambiato casa. All’inizio vivevamo nella casa in cui vivevo quando vivevo da solo, poi abbiamo trovato la casa in cui abitiamo tutt’ora e che abbiamo acquistato nel corso degli anni. L’abbiamo costruita insieme, a misura nostra e non solo di una delle due persone, per cui l’abbiamo arredata e messa in quadro insieme, e quindi questa cosa si aggiungeva all’entusiasmo della salute ritrovata, magari non totale nei primi periodi, però che ci permetteva di fare una serie di altre cose. Uno dei primi viaggi fatti ricordo che è stato alle Cinque Terre in Liguria e ai tempi la passeggiata dell’amore era ancora aperta ed eravamo riusciti a fare praticamente tutto con un entusiasmo riscoperto.

Molto bello. L’ultima domanda che mi è venuta in mente facendo un passo indietro. Quando ha raccontato che avete fatto le visite, adesso non so se con gli psicologi o comunque con i medici, che hanno prospettato anche un eventuale fallimento dell’intervento, era già un tema di cui avevate parlato, discusso, preso coscienza, oppure arrivati lì è comunque una cosa che spiazza diciamo?

Bella domanda, faccio fatica a ricordarmi questa cosa.

Probabilmente era uno degli argomenti che io ed Enrica avevamo in qualche maniera affrontato, soprattutto all’inizio, pensando che potesse essere un rischio, però onestamente in questo momento è un ricordo un po’ sfumato, ma non credo di aver mai considerato così tanto a fondo la possibilità che potesse non andare a buon fine.

Io credo sia difficile pensare di partire con questa cosa non mettendolo nel conto, ma credo sia giusto averlo come una sorta di spauracchio.

Magari in maniera ingenua, ma non mi sembra di aver dato mai troppo peso a questa cosa.

Anche nel colloquio con gli psicologi è stato uno degli argomenti emersi, in cui si è puntualizzato che avrebbe anche potuto verificarsi questa prospettiva, ma non mi ricordo che sia stato poi uno degli argomenti più discussi.

Adesso probabilmente la legislazione è cambiata in questo senso. Noi all’ora non eravamo sposati e quindi era necessario che ci fosse un magistrato che autorizzasse l’espianto proprio perché c’era, e in altre parti del mondo c’è ancora, un mercato nero degli organi, fatto di gente che vende per varie ragioni un rene o altri organi. Quindi in sostanza era necessario che ci fosse da parte di un magistrato l’autorizzazione a procedere con il trapianto, in modo da escludere che ci fossero fini di lucro. Inoltre anche la relazione psicologica serviva a questa cosa qua, cioè a escludere il fatto che io, facendo magari finta di farlo a fin di bene, mi stessi arricchendo. Ricordo che anche questo è un altro degli argomenti che gli psicologi avevano in qualche maniera dovuto approfondire, giustamente.

Giustamente, interessante. Direi che abbiamo toccato tante tematiche, è stato un bel racconto, stimolante anche per me che magari non conosco benissimo il “mondo”, la malattia in prima persona, è comunque sempre molto stimolante soprattutto anche sentire le due parti, Enrica e lei, viene fuori un racconto unico, è molto bello sono contenta di aver parlato con entrambi voi. Direi che possiamo concludere e chiedo questa cosa qua: c’è qualcosa che ci tiene, o che desidera, far sapere ad altre persone che stanno iniziando il percorso che lei ha fatto e che ha anche portato a buon fine? Non è una domanda facile…

Ma io dico solo una cosa: io credo che suggerire agli altri cosa fare non sia mai facile, nel senso che credo che davvero ogni persona abbia dentro di sé delle motivazioni per cui fa o non fa delle cose, che sia andare a giocare a calcio, scegliere di fare volontariato all’estero o  qualunque altra cosa.

Credo ci siano nella propria storia personale e nel proprio vissuto tutta una serie di cose, per cui forzare le persone a fare delle cose che non si sentono credo che sia deleterio, e questo vale per la donazione del sangue, di un organo, ma anche per la ricezione, perché se queste cose non sono fatte maniera assolutamente spontanea si rischia che la cosa diventi, appunto, deleteria sia per chi lo fa sia per chi lo riceve.

Detto tutto questo, è chiaro che ci sia un problema a monte, che è quello della conoscenza delle cose, perché io sono convinto che non solo sulle donazioni da vivente, ma anche su quelle da cadavere, ci sia tutta una serie di cose che si ignorano, che non si conoscono. Per cui penso che magari una campagna informativa su questo argomento sarebbe utile. Ad esempio servirebbe a far conoscere i pro e i contro della donazione, il fatto che con un rene solo si può vivere tranquillamente, il fatto che ci siano degli esami anche un po’ invasivi, che l’intervento chirurgico non è una passeggiata e presuppone dei giorni di degenza, ma che allo stesso tempo è assolutamente una cosa sopportabile da chiunque dal punto di vista fisico e che si può affrontare senza particolari conseguenze.

Per quanto riguarda, invece, andare a portare degli esempi di sé stesso per in qualche maniera convincere altri a farlo io ho delle perplessità, ma proprio perché credo che ognuno debba arrivare a maturare le sue decisioni in maniera spontanea perché questo abbia un significato.

Poi ripeto la campagna informativa su che cos’è la donazione, ma a tutti i livelli, dalla donazione del sangue a quella degli organi a quella di midollo osseo sia importante, perché credo che ci siano ancora tante persone che hanno dei  pregiudizi o non hanno la conoscenza di che cosa succede.

A proposito di questo argomento, ora mi viene in mente una cosa: ricordo che in passato ci sono stati degli anni in cui in televisione è stata fatta tutta una serie di campagne contro le donazioni da cadavere. Addirittura Celentano, molti anni fa, in una trasmissione si era espresso contro questo tipo di pratica e nel giro di alcuni mesi le autorizzazioni all’espianto di organi da parte di persone decedute erano colate a picco.

Tutto questo per dire che chiaramente se una persona si basa solo sul sentito dire, sulle fake news, oggi diventa davvero difficile prendere delle decisioni consapevoli, quindi da questo punto di vista credo che una campagna informativa su che cos’è la donazione in generale potrebbe essere assolutamente utile e credo che AIDO da questo punto di vista svolga un ruolo importante e prezioso insomma.

Assolutamente. Ora ho finito veramente, grazie perchè è stata una bella risposta e credo anch’io che ci sia veramente bisogno perchè è una questione importante, sulla donazione e su tanti altri tempi c’è molta disinformazione, io non mi ripeto assolutamente un’esperta però anche solo iniziare ad avvicinarsi così fa aprire un po’ le prospettive. Allora io sono soddisfatta, spero anche lei. La ringrazio ancora tanto per la disponibilità e la fiducia, prima di tutto deve essere uno spazio per voi per potervi raccontare, è importante che si senta bene e che sia andata bene. Grazie ancora, arrivederci.